Riflessioni su un documento del confine orientale

di Antonio Sema

Il materiale pubblicato da "IL PICCOLO" e attribuito alla commissione mista italo-slovena si presenta come un documento a carattere storiografico, ma tale non è e spiace che alcuni studiosi - anche di un certo livello - abbiano accreditato la dignità scientifica di un testo politico che si presenta con apparenze storiografiche ma che in realtà è fazioso, denso di omissioni e distorsioni e soprattutto pericoloso per le tesi che sostiene.

L'apparenza storiografica
Il primo elemento per sostanziare tale affermazione riguarda la caratura scientifica della commissione italiana, con tre cattedratici (Angelo Ara, Maria Paola Pagnini e Elio Apih) e tre docenti associati o ricercatori come Silvio Salimbeni, Raoul Pupo e Marina Cattaruzza. Giorgio Spini ha ricordato l'incontro avvenuto nel 1960 tra lui stesso, Leo Valiani, Franco Venturi e Ernesto Sestan con i colleghi jugoslavi. Dopo i primi colloqui, ha ricordato Spini, "da parte jugoslava ci si mise subito sull'attenti perché capirono che la gente come Sestan, Venturi, ecc. conosceva la loro storia meglio di loro stessi".
Per quanto ne sappiamo, non risulta che in quest'occasione qualche storico della commissione slovena si sia messo sull'attenti. Si sa invece, secondo quanto hanno dichiarato alcuni membri della commissione mista, che gli studiosi avrebbero "lavorato assieme, hanno fatto ricerca, sono andati negli archivi in Italia e in Slovenia". Purtroppo, "andare in archivio storico" non significa affatto "essere in grado di leggere quanto contenuto nell'archivio medesimo", non fosse altro perché nessuno dei componenti della commissione italiana, a parte Fulvio Tomizza (deceduto) e forse Elio Alpih (che ha partecipato solo a una fase dei lavori) è mai stato in grado di leggere gli originali dei documenti sloveni e jugoslavi perché non conosce la lingua slovena e tantomeno quella serbo-croata. In altre parole, il testo è frutto della elaborazione di due gruppi di studiosi che oggettivamente (e anche senza andare a guardare la bibliografia specifica) non disponevano delle medesime professionalità scientifiche. Con tutto ciò, o forse proprio per questo, Sergio Bartole, primo presidente della commissione storica italiana, ha pubblicamente sostenuto nel 1997 (e non l'ha mai smentito) che la pretesa di "dettagliare i singoli fatti avrebbe comportato un lavoro di decenni". Dal momento che la commissione ha prolungato i suoi lavori per meno di un decennio, ne risulta che per ammissione del suo stesso presidente di parte italiana la commissione non ha dettagliato i singoli fatti ma ha operato una scelta.

La faziosità
Tale scelta, on è stata però equilibrata. Ci sono, infatti, gli elementi oggettivi per definire il testo pubblicato dal "Piccolo" un lavoro fazioso e marcatamente filosloveno in ogni sua affermazione impegnativa e significativa ai fini della conoscenza e della valutazione degli eventi che hanno interessato la Venezia Giulia nel periodo preso in esame.
Il documento è indubbiamente fazioso, ossia di parte, perché fin dall'inizio rinuncia all'oggettività (almeno a livello delle intenzioni) per assumere un preciso punto di vista. Nel 1997, lo stesso presidente della commissione storica italiana, Sergio Bartole, ha, infatti, pubblicamente sostenuto (e mai smentito) la opportunità di evitare indagini troppo approfondite sul passato comunista della Slovenia per non "intaccare" a delicatissima identità nazionale slovena.

L'orientamento filosloveno
La faziosità del documento si traduce in un marcato atteggiamento filosloveno, che si evince dal fatto che l'elaborato giustifica o minimizza ogni collaborazione degli sloveni con il fascismo e con le forze di occupazione del loro territorio, mentre giustifica costantemente ogni loro atteggiamento nazionalistico e difende l'insieme delle loro richieste territoriali.
Scendendo nel dettaglio si nota, infatti, che:

1) - a proposito degli atteggiamenti nazionalistici sloveni il documento sottolinea la loro tensione nazionale in ambito austro-ungarico, e parifica la "volontà slovena di rompere i confini politico-amministrativi" interni all'impegno austro-ungarico allo "sguardi che gli italiani rivolgono oltre le frontiere" fra due Stati, quello asburgico e quello italiano;
 

2) - a proposito delle aspirazioni territoriali il documento si premura di indicare gli obiettivi sloveni e jugoslavi alla fine della Grande Guerra come l'aspirazione al confine etnico "che sostanzialmente coincide con il confine italo-austriaco del 1866" e li giustifica come una tesi "che affonda le sue radici nella concezione dell'appartenenza della città alla campagna", mentre collega le aspirazioni italiane alla volontà di ottenere "un confine geografico e strategico" al "prevalere nella penisola delle correnti più radicali" e alla "necessità politico-psicologica di garantire una frontiera sicura alle città e alla costa istriana, prevalentemente italiane";
 

3) - a proposito dei rapporti col fascismo il documento si limita a citare "alcune frange che aderirono al fascismo", ma evita di ricordare le congratulazioni dell'on. Virgil Scek alla sede del fascio goriziano alla sera della Marcia su Roma, manca di riflettere sulla tesi dello storico Diego Sedmak (discussa in epoca titina) che affronta la presenza nel corso degli anni Venti di un partito fascista sloveno nell'alta valle dell'Isonzo, non cita gli sloveni che militarono nella MVSN almeno fino al 1927 (e che Livio Ragusin Righi ricordò nel 1929 lamentando che la loro assenza dopo quella data aveva aperto la strada al terrorismo del TIGR) e soprattutto non ricorda le due legioni di CCNN formate da allogeni della Venezia Giulia che andarono volontarie in Etiopia e in Spagna, che sfilarono davanti a Mussolini in piazza Unità nel 1938 e che nel 1941 furono allontanate dal fronte orientale in previsione dell'attacco alla Jugoslavia;
 

4) - a proposito dei rapporti con le forze di occupazione italiane e tedesche in Slovenia il documento minimizza la collaborazione degli sloveni con gli italiani sostenendo che "in un primo tempo" il regime di occupazione italiano fu "piuttosto moderato" e quindi apparve come "un male minore" rispetto a quello tedesco e per quanto ottenne "alcune forme di collaborazione, anche se le stesse forze politiche che vi accondiscesero non lo fecero necessariamente in virtù di orientamenti filofascisti; gran parte degli sloveni confidava infatti, dopo un periodo di iniziale incertezza, nella vittoria delle armi alleate e vedeva il futuro del popolo sloveno a fianco della coalizione delle forze antifasciste";
 

5) - a proposito della presenza dell'Adriatisches Kustenland, il documento si limita a segnalare che i tedeschi si servirono della "collaborazione subordinata di formazioni militari e di polizia italiane, ma anche slovene" senza scendere in altri dettagli;
 

6) - a proposito delle aspirazioni territoriali slovene alla fine della seconda guerra mondiale il documento sostiene una prima volta che il nuovo confine "realizzò buona parte delle aspettative che avevano animato la lotta degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia contro il fascismo" ma omette di dire che tali aspirazioni esistevano ben prima del 1918, ribadisce una seconda volta che il "coronamento" delle "aspirazioni nazionali" del popolo slovene si realizzò ma in forma "non integrale", ripete una terza volta che il Trattato di Pace "riuscì complessivamente vantaggioso per la Jugoslavia, che ottenne la maggior parte dei territori rivendicati", e conclude una quarta volta che da parte slovena "la soddisfazione per il recupero delle vaste aree rurali del Carso e dell'Alto Isonzo si accompagnò alla delusione per il marcato accoglimento delle storiche rivendicazioni sui centri urbani di Gorizia e Trieste, in parte compensate dall'annessione della fascia costiera del capodistriano - che vedeva una consistente presenza italiana - che fornì alla Slovenia lo sbocco al mare".
 

Le omissioni e le distorsioni

Nel documento della commissione mista ci sono omissioni e distorsioni, conseguenti all'impronta marcatamente filoslovena prima ricordata, come si evince dai seguenti elementi oggettivi, presenti (ovvero assenti) nel testo medesimo.
Il documento cita le affermazioni di contemporanei come Angelo Vivante e Scipio Slataper per criticare la tesi italiana di una fisionomia "puramente artificiale all'espansione slovena" però evita di ricordare un altro contemporaneo, lo sloveno Henrik Tuma che invece documenta l'azione austriaca tesa a rinforzare la presenza slovena a Gorizia all'inizio del 900.
Il documento richiama in ogni occasione la "mano pesante" delle autorità italiane nei confronti degli sloveni che intendevano manifestare la propria volontà di annessione alla Jugoslavia, ma evita di rapportare tale comportamento alle pratiche slovene e jugoslave in Carinzia, nonché agli usi delle autorità jugoslave (ovvero allo Stato di cui gli sloveni furono sudditi fedeli e anzi occuparono incarichi di notevole responsabilità con Mons. Korosek) nelle aree multietniche di confine.
Il documento cita la "adesione della popolazione slovena della Slovenia al movimento partigiano" ma evita di segnalare che l'adesione della popolazione
slovena alle unità collaborazioniste (nel medesimo contesto temporale geografico) fu superiore del doppio a quelle delle unità partigiane.
Il documento sostiene (senza l'onere della prova) che "l'adesione della popolazione slovena della Venezia Giulia al movimento partigiano, le azioni delle formazioni militari e degli organismi di potere resero testimonianza della volontà di tale popolazione che questo territorio appartenesse alla Slovenia", ma omette di applicare tale meccanismo interpretativo sia al volontariato istriano, giuliano e dalmata di lingua e cultura italiana nel corso della Grande Guerra che alle unità partigiane legate alla resistenza italiana e insediate nei territori della Venezia Giulia, che infine ai militari delle FF.AA. del regno d'Italia provenienti da quelle terre che combatterono in nome dell'Italia sia prima che dopo l'8 settembre.
Il documento riconosce che il PCI "sia a livello locale che nazionale, fino all'estate del 1944 non accettò l'idea dell'annessione della jugoslavia delle aree mistilingui ovvero a prevalenza italiana" ma poi conclude che "più tardi invece, in una mutata situazione strategica e dopo che il PCS ebbe assunto il controllo sia delle formazioni garibaldine che della federazione triestina del PCI, i comunisti giuliani aderirono all'impostazione dell'OF". Il documento omette soprattutto di approfondire la cruciale circostanza oggettiva per cui nella Venezia Giulia vi furono due resistenze che combattevano in uno stesso territorio e per lo stesso territorio. Per questo, l'italiano Luigi Frausin aveva messo al primo posto la lotta armata contro l'occupante tedesco e il fascista che collabora con lui, in base al principio di autodeterminazione. Su queste basi Frausin e il PCI avevano partecipato al CLN, una collaborazione destinata a cessare solo con l'eliminazione dell'intero gruppo dirigente comunista e internazionalista su delazione di Mariuccia Laurenti, spia della Gestapo, e sorella di Eugenio, comandante partigiano.
Questo fatto rimanda alla vicenda - pure omessa di Vincenzo Bianco, membro del Comitato Centrale del PCI, che dalla primavera del 1944 rappresenta il suo partito presso gli sloveni. Conosce Mariuccia, anzi vuole sposarla. Il 24 agosto Frausin viene catturato, il 12 settembre Tito proclama il diritto delle genti slave su Venezia Giulia, Dalmazia e Carinzia, e gli sloveni proclamano l'annessione di Trieste e di tutto il Litorale. Il 24 settembre, Bianco in una lettera "riservatissima", sostiene la necessità di porre le formazioni partigiane italiane sotto il comando sloveno, e accetta le tesi slovene. Come ricorda l'esponente slovena Lidia Sentjurc, Bianco aveva capitolato a proposito della "riservatissima" perché era diventato "umile" dopo i suoi "colpetti" ossia le reprimende per il rapporto con Mariuccia.
Rientrato a Milano, Bianco è radiato dal Comitato Centrale e le sue direttive sconfessate, ma ormai il PCI di Trieste, privo della dirigenza internazionalista, privo di Frausin, è solo un'appendice dei comunisti sloveni e presto uscirà dal CLN triestino.
Il documento omette di approfondire le vicende dei numerosi combattenti partigiani italiani eliminati in maniera sospetta, come:
Giovanni Zol, comandante del Battaglione Triestino che nell'ottobre del 1943, quando i tedeschi occuparono l'Istria, si ritira nel Carso istriano. Zol cerca un'intesa con gli sloveni che non vogliono una presenza autonoma di comunisti italiani nel territorio appena annesso, poi a novembre viene ucciso in un'imboscata dai contorni alquanto ambigui;
Giovanni Pezza: rifiuta la confluenza nelle file slovene, costituisce il Battaglione italiano autonomo Giovanni Zol, che risponde al PCI triestino nel contesto del CLN italiano. Alla fine di febbraio 1944, viene passato per le armi da un distaccamento partigiano comandato dallo sloveno Carlo Maslo;
Ferdinando Marega, il comandante militare del Battaglione Triestino d'Assalto che vuole contattare il PCI triestino mentre il suo comando politico è d'accordo con gli sloveni, e viene catturato a Doberdò dai tedeschi.
Il documento omette pure di ricordare la vicenda del Battaglione autonomo Alma Vivoda che nell'agosto del 1944 riceve dagli sloveni l'ordine di sciogliersi, ma la Medaglia d'Oro Vincenzo Gigante risponde negativamente.
A ottobre, il CLN sposta l'unità all'interno dell'Istria, dove sarà circondata e distrutta dai tedeschi.
Gli equivoci, i silenzi, le mezze frasi sulla resistenza italiana nella Venezia Giulia sono funzionali alla dimostrazione della tesi di fondo del documento della commissione mista che, infatti, sostiene, (senza l'onere della prova) che "particolarmente vasta fu la partecipazione al movimento di liberazione da parte della popolazione slovena, mentre quella italiana fu frenata dal timore che il movimento partigiano venisse egemonizzato dagli sloveni". Questa tesi di fondo coincide con le tesi slovene esposte nell'agosto del 1944 (ossia nel periodo della eliminazione di Frausin) dal numero 2 del giornale clandestino "Unità Operaia -Delovska Enotnost", secondo cui "la classe operaia triestina é troppo preoccupata per la questione territoriale, poco attiva e combattiva, ciò in cui purtroppo molti non compresero fra i comunisti ed ancora non comprendono".
La medesima tesi viene capovolta a proposito del periodo immediatamente successivo alla fine della guerra e all'occupazione jugoslava di Trieste quando la commissione (senza l'onere della prova né quantitativa, né soprattutto temporale) insiste invece sulla scelta "in favore dell'annessione alla Jugoslavia... compiuta allora dalla maggioranza del proletariato locale di lingua italiana". L'ultima capriola della commissione riguarda le conseguenze della crisi del Cominform quando si sostiene che all'interno della stessa componente slovena della zona A la minoranza si schierò per i titini, mentre la maggioranza si schierò "a favore dell'Unione Sovietica e contro la Jugoslavia".
Riesce difficile comprendere come in un medesimo documento si possa in una pagina sostenere che "l'adesione della popolazione slovena della Venezia Giulia al movimento partigiano, le azioni delle formazioni militari e degli organismi di potere resero testimonianza della volontà di tale popolazione che questo territorio appartenesse alla Slovenia", e nella pagina successiva sostenere a proposito del medesimo territorio e della medesima popolazione che all'interno della componente slovena della zona A la minoranza si schierò per i titini, mentre la maggioranza si schierò "a favore dell'Unione Sovietica e contro la Jugoslavia". Se ciò avviene, probabilmente, é perché il documento non é storico ma politico, ossia piega gli argomenti alle tesi che intende dimostrare, omettendo le interpretazioni e soprattutto i fatti discordanti con le medesime tesi.

I Rischi
Il testo accredita le modalità interpretative del peggiore revisionismo storico, quello negazionista, in un punto cruciale della ricostruzione degli eventi successivi alla seconda guerra mondiale nella cosidetta zona B. La commissione riconosce, infatti, che "nei comportamenti anti-italiani di parte degli attivisti locali, che ribaltavano sull'elemento italiano l'animosità per i trascorsi del fascismo istriano, é palese... l'intento di liberarsi degli italiani" ma subito dopo aggiungere che "allo stato attuale delle conoscenze mancano riscontri certi alle testimonianze - anche autorevoli di parte jugoslava - sull'esistenza di un piano preordinato di espulsione da parte del governo jugoslavo". Tale piano, comunque, riconosce la commissione, "pare essersi delineato solo dopo la crisi dei rapporti con il Comiform".
Il dato essenziale é che nel quindicinale "Panorama" del 21 luglio 1991lo stesso Milovan Djlas ha dichiarato (e non ha mai smentito) "che nel 1946 io e Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda antitaliana. Si trattava di dimostrare alla Commissione alleata che quelle terre erano jugoslave e non italiane. Ci furono manifestazioni con striscioni e bandiere... Bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto".
Ne consegue che per incolpare i nazionalisti sloveni di essersi comportati da nazionalisti e antitaliani non bastano le memorie dei diretti responsabili ma si chiedono documenti del Governo jugoslavo o magari firmati dallo stesso Tito. Si tratta del medesimo procedimento giustificativo adottato dallo storico inglese David Irving secondo cui la semplice (e peraltro indubbia) mancanza di qualsiasi documento firmato da Hitler basta a smentire l'esistenza del cosiddetto Olocausto. La tesi, ovviamente, é irrisa da ogni storico serio ma non, evidentemente, dalla commissione mista italo-slovena. La tesi negazionista era invece scomparsa al momento di affrontare le cause dell'emigrazione slava (e soprattutto slovena) dalla Venezia Giulia verso la Jugoslavia nel periodo tra le due guerre. In tal caso, la commissione aveva riconosciuto la impossibilità di "quantificare con precisione l'apporto sloveno a tale fenomeno" ma subito dopo aveva precisato che "nel caso degli espatri in Jugoslavia, che coinvolsero soprattutto giovani e intellettuali, il collegamento diretto con le persecuzioni politiche del fascismo" era "ben evidente".

Osservazioni conclusive
I dati ricavati dallo stesso documento confermano dunque che si tratta di un testo fazioso e filosloveno che omette e distorce la realtà per fini politici. In un simile contesto interpretativo concordato dalle due commissioni l'insistenza di parte italiana e istriana sulle foibe e l'esodo si caratterizza come una trappola accuratamente costruita nel tempo in cui sono caduti (per buona fede ovvero per ignoranza oppure per malafede) commentatori, pseudo storici, presunti esperti, politici e semplici appassionati.
Il primo dato da evidenziare riguarda la malafede dei polititi italiani e degli storici ad essi afferenti. La commissione mista nasce nel 1993 su impulso specifico di due politici democristiani come Beniamino Andreatta e Loize Peterle. Non casualmente, il testo finale, redatto e firmato da almeno due ex politici democristiani variamente riciclati come lo storico Raoul Pupo e l'uomo politico Lucio Toth, evita accuratamente di esaminare il ruolo politico (e lo sfrenato nazionalismo) dei clericali sloveni nel periodo tra le due guerre sebbene in ogni tornata elettorale jugoslava i loro consensi in Slovenia fossero costantemente attorno al 70%) e ricambia la gentilezza omettendo l'esame della politica nazionale e locale della DC italiana e giuliana.
Il secondo dato che merita rilevare riguarda la sostanziale accettazione di questo modus operandi da parte del centrodestra italiana, che nel periodo in cui fu al governo (nel 1994) si guardò bene dal liquidare la commissione mista o quanto meno dal sostituire in tutto o in parte i suoi componenti.
Il terzo dato riguarda la continuità di tale atteggiamento da parte di tutti i governi e le maggioranze successive, fino all'attuale, che hanno sempre coperto il lavoro della commissione.
È presumibile che ciò sia avvenuto in parte per disinteresse politico verso una questione ormai considerata chiusa se non anche risolta, ma in parte anche per la speranza (confortata dalla sostanziale ignoranza storica e culturale di molti esponenti dell'attuale ceto politico italiano) di poter speculare politicamente sui risultati della commissione in tema di foibe ed esodo.
In effetti, é indiscutibile che l'attenzione scientifica e mediatica degli italiani si sia appuntata (nelle rare occasioni in cui ciò é avvenuto) soltanto su episodi drammatici e sanguinosi, (ma pur sempre episodi) come le foibe e l'esodo, senza avvedersi che l'abilità reale della componente slovena é stata quella di condurre la cedevole commissione italiana a concordare la costruzione del contesto in cui collocare tali episodi tanto che un politico esperto come lo sloveno Franco Juri ha definito il documento "un testo di inestimabile valore... non tanto peri i contenuti... ma per il fatto che si tratta della storia raccontata dagli esperti di entrambi i paesi".
E come si evince in ogni passo del documento, i riconoscimenti di responsabilità su singoli fatti sono stati molto utili per taluni studiosi esterni alla commissione che hanno potuto intervenire sul contenuto scientifico del documento facendo mostra di aiutare la conoscenza storica ma di fatto riuscendo solo ad accreditare la scientificità di un elaborato politico, ma non sono mai riusciti ad alterare il quadro complessivo del contesto in cui tutto si giustificava. Di fatto, in quel contesto si poteva ripetere per quattro volte il lamento perché anche dopo il 1945 le aspirazioni territoriali slovene non erano state soddisfatte nella loro interezza mentre non c'é stata alcuna ripetizione sulle aspirazioni italiane.
Nel 1997, avevo concluso una analisi sui dati pubblici circa il lavoro della componente italiana della commissione mista sostenendo l'opportunità, "prima di azzardare un giudizio" sul loro operato, di attendere gli esiti del loro lavoro.
In ogni caso, esprimevo l'auspicio, anzi (beata ingenuità) la certezza che gli studiosi italiani si sarebbero lasciati suggestionare solo "dalla volontà di compiere al meglio, da storici italiani e competenti, il loro difficile lavoro".
Sfortunatamente, essi non hanno operato né da storici italiani né da storici competenti.

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