Essere opachi

(Piero Delbello)


Noi siamo esseri opachi. L'esito di un combattimento infelice fra gli avanzi della politica, più nostrana che nazionale, esauritasi sul confine orientale. Siamo la non risposta ad un bisogno primario corso sotto la pelle dei giuliani. Figli di esuli, oggi ancora ragioniamo nei termini paterni. Noi soli su noi stessi. Non facciamo più parte dell'attualità: non siamo oggetto (mai soggetto) politico. Le nostre storie sono legate nel quotidiano al massimo alla penna di Sabatti, a quella di Manzin, negli spazi del giornale di Trieste. Fossimo ragionanti in antico, dovremmo chiedere che fine hanno fatto i nostri morti. Sono morti. Punto.
Siamo ombre traslucide, mai brillanti, che il tempo ha appannato sempre di più. Siamo il nulla. Che non ha colore. Curati, ancora oggi, col placebo: tra una politica di piccoli furbi, figlia di affari paesani, coperta di bandiere indistinte venate di centro-sinistra, e un'altra incompiuta, a volte pasticciona, spesso inadeguata di opposto sentire. Quella che abbiamo voluto, consci, di quella sapienza comune agli ingenui, che se si fosse cambiato avremmo potuto tenere gli occhi aperti e la fronte alta. Così, ancora, piace credere.
Siamo lemuri, obbligati dalla cultura pietosa della remissione, incapaci, portati avanti e testimoniati dalla generazione degli storici genuflessi, pavidi e ignoranti. Quelli che non sanno rispondere. Figli costretti, spesso, dal luogo comune delle colpe, quelle che necessitano spiegazioni, giustificazioni all'altro. Sortiti dal sentito dire che diviene prova testimoniale, base su cui costruire la "storia". Siamo figliastri non di un negazionismo contrario, ma di una cupa accettazione del "mea culpa", scaricato sui nostri padri, che si chiamano sempre fascisti. Un atto di contrizione che ha permesso per anni di dire che abbiamo subìto - magari, prima, solo di sussurrarlo, e, dopo, nel tempo del revisionismo, di affermarlo più forte - MA, sempre MA, come conseguenza di …, perché prima c'era stato …
Oggi ci hanno insegnato, traverso le pagine del nostro giornale cittadino, che il problema degli esuli non è più politico, non è più oggetto di contesa internazionale, ma è solo storia. Non è neanche così.
Siamo un episodio della storia. Un episodio: quindi finito. Ed appartenendo solo alla memoria locale e a quella generazionale, che è prettamente temporale, non siamo neanche nella memoria collettiva nazionale, non siamo neanche un simbolo.
Siamo indistinti, esseri opachi. Siamo il nulla.
Pure dovremmo essere un simbolo. Pure, per il vissuto che c'è stato, dovremmo trovare la forza per essere ESULI. Esuli sempre. E' questa una condizione che non cambia, uno status senza humus, un'essenza che non ammetterà mai la definizione di ex. Siamo i figli e abbiamo figli. Di esuli.
La nostra natura incarna l'essenza dell'ESULE. Quella dell'esule di ogni parte del mondo. Siamo l'ESILIO. E, passeranno mille anni, noi incarneremo sempre l'esilio. Un popolo giuliano-dalmata senza guida. Senza Mosè. Ma un popolo. Simbolo di tutti i popoli cacciati, fuggiti, obbligati all'esilio. Siamo il simbolo dell'esilio. Ma non capirlo, ora che non siamo neanche storia, significa sparire.

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