Croazia: arte medievale e politica odierna

In margine alla mostra bresciana "Bizantini,Croati,Carolingi. Alba e tramonto di regni ed imperi"

(Alberto Rizzi)

Perché questo argomento di arte altomedievale? Perché la Croazia ha avuto il suo momento di indipendenza, prima come principato e poi come regno in questo momento storico, tra l'VIII e l'XI secolo. Poi c'è stata l'unione con l'Ungheria (sarà ancora indipendente solo nel 1941 con Pavelic), mentre differente è il discorso sia per gli Sloveni che per gli Slovacchi che non potranno mai vantare un passato di stato indipendente.
Questa Croazia, come stato indipendente dotato di una sua personalità, è sempre stata ovviamente sopravvalutata dai Croati e sminuita dagli Italiani.
La storiografia croata tende poi ad esaltare il ruolo del proprio popolo nell'ambito statuale ungherese, mentre i Magiari tendono a sminuirlo. Grosso modo al riguardo per i Croati il loro apporto si concretizzò con un 40%, per gli Ungheresi col 20-25%. Qui, però, si parla solo di un principato vassallo dello Stato carolingio (impero dall'anno 800), poiché siamo tra l'VIII e il X sec.: il titolo di regno sarà successivo.
C'è il mondo bizantino, carolingio e l'elemento croato: ma si può parlare di arte croata? No, e nel senso di arte autonomamente croata, non lo fanno neanche gli stessi Croati. Ma in questo periodo, generalmente, non si usa mai parlare di arte propriamente nazionale, per nessun luogo. Qui, però, si crea un equivoco, in cui il pubblico, visitando la mostra, cade facilmente. Si tenga presente che solo una minima percentuale di persone acquista il catalogo ed una ancora più piccola lo legge con cognizione di causa. Dunque la mostra: l'esposizione inizia proponendo alcune carte pertinenti (cfr. p. 85 del catalogo) ma poi le successive non mostrano confini di sorta, anzi l'Istria (cfr. p. 306 del catalogo) viene illustrata (senza i confini politici attuali) ingenerando equivoci: si vede il principato croato, che mai ha avuto sovranità sull'Istria (se non sull'area costiera attorno a Laurana) ma si parla di "regione" croata e nelle carte viene compresa anche l'Istria. Si parla dell'Istria (e della Dalmazia) come se fossero croate da sempre. Superfluo rilevare tale esaltazione del croatismo che durante il periodo della Jugoslavia di Tito sarebbe stata inconcepibile, se non fosse per sottolineare il rapporto che l'argomento ha con la presente situazione politica. Naturalmente tutti i ragionamenti sull'arte si fermano all'Istria al di qua della Dragogna, come se le stesse manifestazioni artistiche, presenti anche nelle cittadine ora di pertinenza slovena, non esistessero proprio. Anche uno sloveno, visitando la mostra, proverebbe un certo fastidio. Poiché si cade nel tipico errore di tutti i nazionalismi: si considerano insieme sia i confini storici (e politici) che quelli geografici. E si vogliono i diritti di entrambi. Se dovessimo cercare un senso di questo, lo troveremmo solo nel fatto che allora nasce un'entità statuale. In verità il catalogo della mostra ci dice che sino al XII secolo le città dalmate erano latine (quindi lo si ammette), ma in sede espositiva ciò non viene espresso mettendo lo spettatore, spesso ignaro, nella situazione di non poter capire. Quando si sviluppa uno Stato, quale esso sia, non si può negare l'esistenza di un'arte in quello Stato. Ma non sempre - e qui siamo proprio in questo caso - si può parlare di "arte nazionale". Non si tratta, quindi, di arte croata ma solo di arte del periodo (per committenza) "croato". E, in ogni caso, questo discorso può riguardare soprattutto quelle città dalmate, che erano di pertinenza del principato di Croazia. A maggior ragione non si può usare lo stesso parametro per l'Istria occidentale. È vero che dal VII sec. (Placito del Risano: 804) vi è una penetrazione slava (non solo "croata") in queste terre. Ciò riguarda, però, soprattutto l'interno dell'Istria, e non vengono intaccate le coste occidentali. Nessuno spiega al visitatore della mostra queste cose e lui non le può vedere: gli appare una dimensione di arte croata e basta (pur prodotta sotto l'influenza carolingia). Ciò altro non è se non un isomorfismo (l'uso in sostanza di un medesimo linguaggio comune a una grande area). In sostanza anche gli Sloveni parlano di "arte provinciale" carolingia che tende a svilupparsi in vari luoghi (Francia meridionale, Spagna, Svizzera, Italia centrosettentrionale, Carinzia, ecc.) fra cui anche in Istria e in Dalmazia. A seconda della sua nazionalità ogni ricercatore ha attribuito a questi rilievi un carattere più o meno locale e di conseguenza caricato ciò di nazionalismo (solo a titolo di esempio basti leggere le paginette introduttive (in sloveno) di Plastika s Pleteninasto Ornamentiko v Sloveniji, Koper 1977) dove al riguardo si scrive esplicitamente di strumentalizzazioni nazionalistiche. Così parlano i "piccoli" Sloveni (ma sono del tutto ignorati). In fondo anche al tempo della Federativa, gli stessi Jugoslavi usavano parlare di arte "paleocroata", mentre nel caso che affrontiamo si parla sempre solo di arte "croata". In sostanza il punto è soprattutto questo: si parla in modo impreciso di Istria, per cui ci si ferma a Cittanova come se non ci fossero ad esempio sculture del medesimo tipo, di cui mancano totalmente notizie in catalogo, anche a Capodistria, a Pirano, a Muggia… Ciò non pare corretto. Nello studio dell'arte o si parla di arte in Italia o di arte italiana (se affronto il discorso dell'Alto Adige, in termini di arte, posso solo parlare di arte "in" Italia). In sostanza è qui che cadono i nazionalismi (e lo stesso vale naturalmente anche per gli Italiani) e qui cadono anche i discorsi affrontati dai Croati. I confini ambigui che vengono creati sembra quasi che vogliano offrire un carattere d'arte specificamente croata, mentre la stessa tipologia va ben oltre l'ambiguità di questi confini. Resta inteso che non si può negare che ci sia stata una penetrazione croata anche nell'interno dell'Istria, ma da ciò arrivare al teorema che questo tipo di arte possa definirsi croato è passaggio improprio. Parallelamente la presenza croata in Dalmazia (con capitali Knin e Nona, pur latine di fondazione) nell'ambito di una struttura politica croata resta riferibile eventualmente alla sola Dalmazia e non all'Istria.
Restando nel tema dell'esposizione si rilevano troppi errori nelle tabelle esplicative per i visitatori e anche gli stessi riferimenti alle località, scritti in italiano e in inglese, sembrano un abile escamotage per non far trapelare il bilinguismo toponomastico. Nella parte italiana, ad esempio, troviamo scritto Solin per Salona o Rab per Arbe, ma ricorrono anche gli errori inversi, per cui nella parte inglese possiamo scoprire un improbabile Leme Valley. Vi sono poi inaccettabili omissioni. L'opera forse più importante della mostra è il fonte battesimale di Nona, dove vi è un'importantissima iscrizione inerente il mondo croato. Tale reperto era conservato a Venezia al museo Correr ed era stato dato in dono nel 1941 dall'Italia fascista alla Croazia ustascia. È questo un particolare che in sede espositiva viene totalmente taciuto, anche se la notizia nel catalogo poi compare. Si riscontrano inoltre tabelle che si riferiscono ad opere diverse rispetto a quelle a cui sono accostate, ma questi possiamo considerarli errori veniali.
Ad esempio di una strumentalistica attualizzazione dell'arte presa in esame, si cita un'eclatante frase presente nelle didascalie della mostra: "I Croati, gruppo egemone nel coacervo delle etnie slave, originari della 'Croazia bianca', l'attuale Polonia". È vero che i Croati provengono dalla Polonia, e con ciò si intende implicitamente sottolineare a posteriori il carattere cattolico ed europeo occidentale del ceppo "croato" (i Croati appoggiarono Carlo Magno nella guerra contro gli Avari, quindi contro la barbarie). Bisogna però osservare che il primo stato organico slavo è la Bulgaria ed è evidente che ignorare questa sequenza cronologica tradisce una funzione implicita antiserba ed è chiaro che tale funzione pare legata ad un inconfessato fideismo (il papa è polacco, i Croati sono i difensori del cattolicesimo e quindi si pongono come i baluardi anti-ortodossia, se non addirittura anti-Islam). È opportuno ricordare in proposito che nel mondo culturale croato della Jugoslavia di Tito una frase che aveva un sapore ereticale era "né Roma né Bisanzio"; ora evidentemente, nonostante il titolo della mostra, è chiara l'intenzione di sottolineare al grosso pubblico la vocazione occidentale e cattolica della Croazia con ovvio riferimento agli avvenimenti più recenti. L'arte altomedievale si presta da sempre facilmente a questo gioco di nazionalismi, e il mondo croato ha ben appreso la lezione.
Continuando nell'analisi dell'evento, non devono essere attribuiti dei demeriti solo agli studiosi croati, vi sono precise responsabilità anche da parte italiana. Ricordiamo solo che la mostra croata precedente a questa, che si è svolta a Venezia, portava l'assurdo titolo "Tesori della Croazia", laddove tutto ciò che si rappresentava apparteneva alla Dalmazia e il 90% addirittura solo a Traù e si afferma ciò senza che si pretenda che si parli solo di Italia. Si pensi a Niccolò Fiorentino, e nel contempo si intendano gli artisti slavi, nella fattispecie croati, partecipi della cultura italiana. Noi pensiamo che dagli incontri nasca la ricchezza, ma siamo sicuri che dalle negazioni non possa che sorgere l'impoverimento. E in questo caso la mistificazione pare evidente già nel titolo. Come dire "espongo i tesori della Sicilia e parlo dei tesori d'Italia". È evidente che da parte governativa croata si vuole porre l'accento sul lato etnico, il che è comprensibile per un giovane Stato, ma contrario al concetto di articolazione regionalistica oggi prevalente nell'Europa occidentale (persino nella storicamente tanto centralinistica Francia).
Alcune osservazioni meritano anche i vari contributi scientifici contenuti nel ricco catalogo.
Già nell'introduzione di Brogiolo, che vuole essere una sintesi, si legge, per esempio, a p. 25: "in queste manifestazioni artistiche della fine dell'VIII secolo, in Istria e Dalmazia forte è il legame con la scultura italiana…". Affermare ciò significa negare una comunanza storica, e a questi livelli non arrivano neanche i Croati. Ma se volessimo essere più precisi, non è corretto neanche usare l'aggettivo "italiana", dovremmo dire "italica". Oppure ancora Brogiolo parla dei rilievi di Spalato che echeggiano quelli di Cividale, o di quelli di Pola e Parenzo, che echeggiano Grado ed Aquileia: che significa ciò? Pare che si voglia dire che sono cosa diversa. Ma era la stessa arte, per cui il fenomeno è di isomorfismo policentrico, non di derivazione. Brogiolo con affermazioni di questo tipo non fa che avallare un'idea improponibile di altomedievale "arte croata".
Nell'introduzione di Jurkovic e di Milosevic si parla di "splendido titolo" (bisognerebbe però osservare che i Bizantini sono ben poco considerati) e si dichiara che a Brescia "viene posta al centro dell'attenzione proprio l'area croata…". Tale discorso va bene a Brescia in quanto in questa città vi è un grande museo cittadino che dedica ampio spazio all'arte medievale. In ogni caso questa introduzione pare più onesta, poiché parla di attuale Croazia e mostra tre grandi regioni indicando la Slavonia (parte slava della Pannonia, cioè grosso modo dell'Ungheria medievale) e creando una divisione tra Pannonia, Istria, Dalmazia, anche se ci sono alcune confusioni da parte degli autori nella toponomastica. A p. 39 si parla simultaneamente di Arbe, Ossero, Salona e "Kotor"!
Nel capitolo di Rapanic vi sono alcune contraddizioni. A p. 40: "in questi paesi, che possiamo definire generalmente croati" e nella stessa pagina: "le città dalmate, quindi, rimasero chiuse in se stesse fino all'XI e XII secolo, restando così prevalentemente romane…". Anche qui sarebbe stato preferibile usare al posto dell'aggettivo "romane" quello di "latine" o "italiche". "Romane" è eufemistico. Così con equilibrio parlando del IX secolo: "le città in Istria riuscirono a conservare la maggior parte dell'agro coloniale e del territorio cittadino, come pure della popolazione che vi risiedeva". Colpa di una traduzione poco curata, pare, l'uso a p. 56 di "Veglia" e poco distante di "Sibenik".
Se ripensiamo alla postbellica storiografia jugoslava, notiamo che in essa veniva sottolineato il carattere di fratellanza. Qui, si pensi al capitolo di Ancic, bisogna cercarla con la lanterna: "i Serbi … non entrarono mai a far parte del sistema politico dell'impero carolingio" il che, tradotto in altri termini, significa che non appartengono storicamente all'Occidente. Troviamo Zara autonoma fino all'XI secolo da una parte e dall'altra si cita il Risano (ora di pertinenza slovena), con il famoso Placito, inserendolo implicitamente in ambito croato. Non ci si meravigli dunque, che in quest'opera i Serbi e gli Sloveni siano quasi del tutto assenti.
Con il francofilo Jurkovic, figlio di diplomatico nella Jugoslavia federativa e socialista e organizzatore dei convegni annuali di alto medioevo di Montona, pare sempre più evidente che i Croati si sono accorti del senso di questo momento dell'arte perché legata ad un momento storico di indipendenza croata. E qui basterebbe un aggettivo per cambiare tutto. A proposito (p. 153) di archeologia e Istria, egli afferma: "il corpus architettonico carolingio dell'Istria, il più consistente della Croazia…". Ma quale? Solo dell'Istria attuale. Si noti che alla fine del XIX secolo, con la nascita del nazionalismo croato nasce anche l'interesse archeologico nazionale per l'arte altomedievale, ma ora, per estensione, sarebbe giusto che come i Croati non si interessano dell'attuale Slovenia, non si accaparrassero di un'arte non loro. È chiaro che qui emerge lampante l'intrico fra politica ed arte. Jurkovic continua a sottolineare il primato dell'Istria: "la prima regione croata che allacciò i contatti con i Franchi fu proprio l'Istria alla fine dell'VIII secolo…". Ma se l'Istria non era di pertinenza croata, o vale il riferimento all'Istria di oggi, oppure, pur con una penetrazione slava, tutto sommato relativa e non incidente sul piano artistico, bisogna per forza riferirsi solo alla Dalmazia, ed anche qui potremo parlare di arte croata, visto che esiste un'entità statuale, ma solo per committenza.
Nikola Jaksic è zaratino, successore nella prestigiosa cattedra di Arte medievale a Ivo Petricioli (nella Zara dove nel 1918 lo zio si dichiarava italiano e il padre croato, essendo originari del Bresciano dal '600), impegnato politicamente vicino a Tudjman in un primo momento, poi staccatosene, elabora un profilo sulla scultura e la liturgia sostanzialmente apprezzabile, però con una "stecca" finale, cui arriveremo. Comunque anch'egli si esprime in maniera ambigua parlando di "regione croata"; incorre in un'imprecisione a p. 78 parlando del "pavimento musivo del Sant'Ilario a Venezia", perché esso era nella gronda lagunare anche se poi pervenne al museo Correr a Venezia. Non usa il termine, pure solito sino a dieci anni fa, di "paleocroato" e al termine per la scultura di "carolingio" preferisce quello di "altomedievale", né parla di "attuale" Istria slovena o "attuale" Istria croata. D'altro canto paiono giuste affermazioni quali: "Vista nel suo complesso la scultura di tutta la regione (sic!, ndr) croata in epoca carolingia, mostra i tratti distintivi caratteristici della scultura preromanica in Italia nel corso dell'VIII e del IX secolo". Egli quindi addirittura parla di italiana piuttosto che di italica e pare più corretto di Brogiolo. A mio avviso la "stecca" finale la si trova a p. 197 dove dice che in questo campo (cioè nello studio della scultura ad intreccio carolingia, o preromanica) gli studiosi croati sono i più avanzati metodologicamente tanto che il loro metodo è ritenuto modello per gli studi del genere (i.e. l'individuazione di caratteri stilistici diversi e di conseguenza il riconoscimento di personalità di artefici). Ma dire ciò, e in tal modo, è solo un'argomentazione di ordine esterno: anche se fosse vero ciò non è pertinente all'assunto iniziale, anche se è innegabile che la storiografia croata ha fornito uno specifico contributo che, però, è evidentemente dovuto al chiaro interesse precipuo.
Anche nel capitolo della Delonga dedicato alle iscrizioni, si nota come venga esclusa l'Istria oltre la Dragogna, mentre si include Cattaro (specificando che si tratta dell'odierna costa montenegrina). Essa riconosce comunque che i monumenti epigrafici dell'alto medioevo croato non sono omogenei rispetto alle tre regioni considerate (basti il confronto con la Pannonia!). A p. 209 parla della Dalmazia con i Romani e i suoi abitanti latinofoni. Cosa significa? In ogni caso parlavano in volgare. Non è poi accettabile, a p. 210, parlare di "costa croata dell'Adriatico" con riferimento all'Istria. Ovviamente lo Stato non c'era. Anche qui si usano termini di attualizzazione. Curioso l'uso del toponimo "Marina" (croato ufficialmente), come se fosse italiano (la località si chiama Bossoglina, in italiano).
Per ultimo si può segnalare tutta una serie di didascalie presenti nelle varie parti del catalogo per cui, p.e., a p. 308-309 si indica una volta Valle e due Bale, e il lettore non pratico dell'Istria crede siano due località diverse. A p. 319 la frazione Gurano è espressa in italiano, mentre la località grande presso cui si trova, cioè Dignano, viene indicata come Vodnjan. Troviamo spesso Pula e fra parentesi Pola, altre volte Rovigno e fra parentesi Rovinj; nelle stesse pagine ancora è facile trovare Spalato una volta e la seconda Split, come Zara una volta e la seconda Zadar. Ma in fondo questa è solo sciatteria.
Mentre rileggo queste mie considerazioni, mi accorgo che possono apparire troppo crude e persino brutali. Tuttavia preferisco lasciarle sostanzialmente nella prima colloquiale stesura, lontana da quegli ipocriti "sofficismi" diplomatici che conosco bene, avendo lavorato a lungo nel mondo delle ambasciate. Con gli amici storici dell'arte croati, che sono di casa da me a Venezia, ho sempre parlato francamente, anche perché una schiettezza di base mi è sempre parsa distintiva nel pur così variegato mondo slavo. Capisco che è molto difficile cercare l'utopistica obiettività con una guerra d'indipendenza (o di secessione che dir si voglia) alle spalle, ma cerchino almeno di non farsi troppo strumentalizzare dalla politica. La Croazia medievale, come osserva il noto storico polacco, naturalizzato francese, Krzysztof Pomian, è, infatti, attualmente, uno dei più fertili terreni di strumentalizzazione ideologica del passato.

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