Si inaugura venerdì 25 ottobre alle ore 17.30 presso l'IRCI/Civico Museo della civiltà istriana, fiumana, dalmata di via Torino, 8.
1954, 26 di ottobre, ci siamo arrivati. Ma come?
È la lenta agonia della Venezia Giulia, malato terminale che si aggrappa alla vita e nutre sempre speranze. Troppo spesso disilluse. In quel fatidico giorno, il 26 ottobre 1954, la folla immensa dei giuliani (triestini, sì, ma quanti esuli istriani fra loro!), dopo una notte in strada sferzati tutti dalla bora e dalla pioggia che dire battente è aggettivo assai dolce, accoglie l’arrivo delle nostre truppe nella città sacra d’Italia, Trieste, finalmente ricongiunta alla madre patria.
Dopo l’8 settembre 1943 il terrore si era diffuso nella Venezia Giulia, la tragedia aveva preso il sopravvento in Istria quando nel caos dell’ordine costituito italiano erano entrati i partigiani del maresciallo Tito con violenze e stragi. L’Istria allora conobbe le foibe. Occupata, subito dopo, dai tedeschi, divenne terra di scontro e di altra morte fino al 1945. E la fine della guerra, non certo il 25 aprile come nel resto d’Italia, non giunse. Anche Trieste e Gorizia, non solo l’Istria, seppero cosa significava occupazione jugoslava: quarantadue giorni di deportazioni e morte. Solo il 12 giugno si sarebbe potuto respirare una presunta aria di libertà, quando gli Alleati fecero sloggiare i titini. Presunta, perché per Trieste sarebbero iniziati nove lunghi anni di governo militare straniero, inglese e americano e per l’Istria, nel frattempo, il tempo infinito di un dopoguerra che non voleva dire pace. Ancora morti, ancora deportazioni, ancora scomparsi, ancora una folla di cui “non si sarebbe avuto più alcuna notizia”.
Il 10 febbraio 1947 il trattato di pace, estremamente impositivo per l’Italia sconfitta, volle dire che anche Pola era perduta. C’era già stata la strage di Vergarolla a sconvolgere gli animi di chi sarebbe voluto restare, perché Pola era italiana, tutta italiana. Se ne andarono in massa, una massa di 30 mila, lasciando solo lo scheletro di una città, la più grande dell’Istria, deserta, nel silenzio del nulla. Era l’esodo simbolo, non sicuramente l’inizio dell’andarsene, ma che quello che più avrebbe colpito, per la massa … dei numeri.
Tutto era perduto. Si creava uno pseudo Territorio Libero di Trieste diviso in due zone: il capoluogo giuliano, con un minimo lembo della provincia che era stata, diventava “zona A”, sotto amministrazione militare anglo-americana, mentre Isola, Capodistria, Pirano e poco altro (ma quanto importante! E quanto italiano!) erano la “zona B”, con un’amministrazione fiduciaria jugoslava. Quando venne il momento delle decisioni, quelle che avrebbero portato Trieste all’Italia e, di fatto, la zona B alla Jugoslavia, si scrisse sui muri “NO ALL’INFAME BARATTO”. Ma eravamo ormai alla fine del 1954 e la guerra era finita (sarebbe dovuta finire) da più di nove anni. Il mondo era cambiato, Tito aveva fatto le sue astute capriole fra rottura con l’Unione Sovietica e ammiccamento, per comodo, all’America. Gli era andata bene. Molto meno alle genti giuliane, sradicate, cancellate socialmente e psicologicamente, sventagliate in cento venti località in tutta Italia, ben “ospitate” in altrettanti campi profughi.
Trieste, a suo modo, continuava a combattere, con il culmine dei morti del novembre 1953. Ancora non bastava.
Il sole d’Italia sarebbe giunto solo il 26 ottobre del 1954, in una giornata in cui la pioggia era un diluvio. Ma era il giorno del giudizio. Un terribile giudizio che portava, contestualmente, altri lembi di terra di quella strana e fantomatica zona A lontano dall’Italia. Il confine si spostava ancora, sempre a nostro sfavore. Dai monti sopra Muggia scendevano verso la città, con i fazzoletti tricolore al collo, i profughi di Faiti, di Bosici, di Santa Brigida, di Crevatini. Qualcuno di questi si era stanziato in zona da poco, esule dall’Istria. Un altro esodo, due volte esuli. Era la notte fra il 25 e il 26 ottobre, Trieste stava per ritornare italiana, ma la zona B era perduta. Scrisse allora Pier Antonio Quarantotti Gambini: “Da un lato commozione: commozione per l’arrivo imminente dei nostri soldati, dall’altro angoscia: angoscia per il distacco della zona B, angoscia per il nuovo passo avanti realizzato dalla Jugoslavia di Tito verso la periferia della città”. Un’ angoscia che niente poteva sanare.